Come suggerisce il dizionario della lingua italiana Treccani, la parola “tecnocrazia” deriva dall’anglismo “technocracy”, che tradisce tuttavia un’origine neoclassica, dalle parole greche τεχνη (tecne, “arte o tecnica”) e κράτος (cratos “potere”). Si tratterebbe quindi di un composto formato da elementi presi in prestito dalle lingue classiche; nella contemporaneità fungono da confissi, prefissoidi e suffissoidi, che danno origine a una nutrita serie, in tutte le lingue europee, di neologismi.
I composti neoclassici vengono adoperati soprattutto nel linguaggio tecnico-scientifico (si vedano le semiparole epato-, cardio-, gastro- usate nella medicina, oppure la semiparola -tron nella fisica) e spesso finiscono nella lingua comune, con l’intento di introdurre denotazione e univocità, tipiche del lessico settoriale.
In senso stretto la “tecnocrazia” è una forma di governo basata sulla prevalenza di tecnica e specialisti; in senso più ampio fa riferimento al prevalere dei tecnici e delle persone altamente specializzate nei vari settori della scienza e della tecnica, nella vita economica, sociale, politica e amministrativa.
Attestato già a partire dal 1935, a livello storico la parola indica un movimento di grande diffusione sviluppatosi in America in seguito alla grande crisi del 1929; un movimento che fra le sue ambizioni voleva creare una nuova economia fondata sullo sviluppo intensivo della tecnologia, dell’automatismo operativo e dell’abolizione della moneta.
Nel dibattito politico degli ultimi giorni la parola “tecnocrazia”, perse le originarie connotazioni storiche ma mantenute quelle etimologiche (tecnica+potere), è tornata a essere un elemento lessicale centrale, spesso in contrapposizione alla più nota “democrazia”; da un lato i tecnici, dall’altro il popolo sovrano. Fra ansie, paure e entusiasmi, più o meno diffusi, del post-berlusconismo si torna ad interrogarsi su grossi temi politico-civili: un governo di tecnici deciso dai gruppi di potere e non dal popolo può dirsi democratico?
In questi ultimi giorni, anche il giornalista e studioso conservatore, Marco Respinti ha guardato con occhio critico la scelta di un governo tecnico; contro il “know how” dei tecnici propone la contrattazione e la scelta: « La democrazia è cioè il segno evidente dell’attività politica, la quale è il luogo del possibile e del confronto. Come il mercato. Si tratta e si contratta onde spuntare condizioni migliori e prezzi vantaggiosi. Ma per chi gira sempre con il libro delle soluzioni nel taschino, per chi si picca di dare lezioni a tutti, per chi sa persino raddrizzare le gambe ai tavoli vittoriani tutto questo è mera perdita di tempo». Per contro già nel 1993 il filosofo ed editorialista, Roberto Esposito, metteva in guardia dal pericolo della mitizzazione dei valori: «La democrazia, senza mitizzare questi valori, senza farli diventare un mito impossibile, deve sempre tenere realisticamente conto delle sue possibilità effettive».
“Realismo” ed “effettività” rappresentano il tentativo di criticare l’atteggiamento che considera la democrazia un valore assoluto - come sta avvenendo nel dibattito contemporaneo – e recuperare invece la connessione intima con il suo rovescio: il totalitarismo. Per Platone la democrazia nascerebbe dalla tirannide, per Montesquieu la tirannide sarebbe frutto di una degenerazione: può nascere dalla troppo poca o troppa uguaglianza; Tocqueville usa l'espressione dispotismo democratico alludendo a un pericolo che insidia la democrazia dal suo stesso interno. Qual è questo rischio interno alla stessa democrazia? Ciò che minaccia di rovesciare la democrazia nel suo opposto totalitario è proprio la pretesa della democrazia di incarnare un valore assoluto, la pretesa di poter arrivare a compimento, di rendere l'uguaglianza assoluta, e, dunque di sopprimere la differenza tra gli individui, tra i poteri, tra potere e sapere.
La storia ha smentito anche Marx. La stessa idea rivoluzionaria del comunismo, ricca di forza, di potenza analitica, si è infranta nel miglioramento delle condizioni del proletariato imposte dallo stesso capitalismo tanto denigrato; inoltre la società perfetta senza conflitti, senza alienazione, dove gli uomini sono restituiti a se stessi, è anche la società in cui non ci sarebbe più bisogno di politica, di stato e di legge.
Scrive ancora Esposito: «Anche in questo caso l'idea di democrazia finisce con lo slittare nel suo opposto: rischia di essere tanto compiuta e tanto perfetta da perdere quegli elementi differenziali che sono necessari alla sua vita. Questa è un'osservazione che faranno alcuni grandi teorici novecenteschi della democrazia come Max Weber, Hans Kelsen, Schumpeter. Questi teorici ci dicono: attenzione, non bisogna chiedere troppo alla democrazia, non bisogna fare una richiesta troppo alta altrimenti si rischia di perdere l'essenza della democrazia, cioè il fatto che la democrazia più che un valore assoluto è una tecnica, è un insieme di regole, che rendono possibile la vita politica».
Attenzione quindi a fare un uso ideologico delle parole valoriali: con le pressioni della BCE e il più alto tasso di precariato in Europa, l’Italia può permettermi ben pochi salti ideologici; l’ipoteca sul futuro rischia nel post-berlusconismo di avere il volto dell’iper-garantismo della Camusso e della politica dei luoghi comuni.